Un coraggio da conigli.

 

In fondo al prato di zia Teresa, da tutti conosciuta come “La Ballerina”, appena attraversata la stradina dei campi e subito prima del canale d’irrigazione, c’è un filare di ontani. Da quelle parti passa solo un trattore ogni tanto, in estate. Oppure, ancor più di rado, passa Luigi in bicicletta, quando decide di percorrere il sentiero tra i campi per andare in paese.

Ebbene, ai piedi di quegli ontani, tra i rovi, ci sono tantissime tane. E all’interno di quelle tane, viviamo noi: i conigli. Siamo moltissimi, ma ci lasciamo vedere solo da lontano. Se ti avvicini un po’ di più ci precipitiamo tutti sotto terra e quando arrivi sul posto, trovi solo le pallottole dei nostri escrementi sparse sul terreno ben battuto intorno ai buchi.

Una volta non era così. Non molto tempo addietro potevi avvicinarti abbastanza da vederci giocare tranquilli sull’erba. Eravamo tutti allegri e spensierati, sicuri al riparo di quegli ontani, con quei prati d’intorno, ricchi di erba medica e trifoglio e tarassaco e graminacee di ogni specie. Tutti grigi allo stesso modo, imparentati come siamo, dovevamo soltanto pensare a mangiare e moltiplicarci… come conigli.

Chi poteva mai pensare di allontanarsi da quel Paradiso?

Eppure un matto così c’era. Il Moro. Un coniglio grigio, come tutti gli altri. I genitori lo avevano chiamato “Moro”, perché asserivano che fosse più scuro. Mah… A me non sembrava. Secondo me era grigio proprio come tutti gli altri.

Il Moro era sempre in agitazione: correva, saltava, si rizzava sulle zampe posteriori, era sempre in movimento. Diceva che l’erba in fondo al prato era più dolce, che laggiù era meglio esposta al sole, e si allontanava così tanto dalla tana, che più di una volta il gheppio era quasi arrivato a graffiargli il dorso. Lui diceva: “Ma non farmi ridere! È impossibile che arrivi a prendermi! Filo più veloce di lui, anche senza ali!” Non aveva proprio paura di nulla.

E si vantava. Gli piaceva mostrare agli altri quanto fosse coraggioso. Soprattutto al Rosso.

Il Rosso sono io. Mamma e papà mi hanno chiamato “Rosso” perché dicono che quando ero giovane i miei peli davano sul rossiccio. Va beh, lasciamo perdere…

Eravamo grandi amici, il Moro ed io. Eravamo cugini ed avevamo più o meno la stessa età.

Al contrario del Moro, io ero un fifone. Non che oggi sia un temerario, ma a quei tempi uscivo dalla tana solo per mangiare e trasalivo ad ogni muover di foglia. Il Moro lo sapeva e mi molestava continuamente. Io mi lasciavo convincere e lo seguivo, anche perché non volevo che lui andasse in giro per il bosco a burlarsi di me. Ma poi, alla fine, in un modo o nell’altro, io mi spaventavo per questo o per quello e il Moro correva a raccontarlo a tutti.

Io, da piccolo, ero anche curioso come un topolino e il Moro sapeva bene come fare per incuriosirmi.

Un giorno il Moro pensò bene di portarmi a vedere la strada, all’altro lato del prato, dove corrono le automobili.

“E che roba è la strada?” gli chiesi, un po’ diffidente per la puzza di avventura che mi sembrava di sentire.

“La vedi la stradina, no? Ebbene, più o meno così. Ma taaanto più larga, taaanto più nera e taaanto più dura.”

“Ma tu sei già stato fin laggiù?”

“Euh! Mille volte!”

“E cosa sono le automobili?” Più io tremavo per il timore, più il Moro si esaltava e si compiaceva.

“Ce l’hai presente il trattore?”

“Quell’affare che fa tutto quel baccano?”

“Sì. Le automobili sono tipi di trattore che corrono sulle strade. Fanno molto meno rumore, ma corrono molto più veloci.”

“Diamine! Più veloci del trattore?” Che ne potevo sapere io, a quei tempi...

“Più veloci del trattore. Mooolto più veloci. È incredibile, quanto vanno veloci. Io le ho viste.”

Io non riuscivo ad immaginarla, una cosa del genere.

“E perché?”

“Cosa perché?”

“Perché corrono così?”

“E io che ne so? Andiamo a vedere, no?”

E così ci incamminammo: il Moro davanti, con le orecchie belle ritte, e dietro io, con le orecchie basse sulla schiena, che credevo di vedere la volpe in ogni cespuglio e lo sparviero in ogni cornacchia.

“Aspettami, no… Che fretta hai? Non correre così, che mi sembri un capriolo!”

“E tu mi sembri una tartaruga! Muoviti, dài, che non arriviamo più!”

Ma infine giungemmo vicino alla strada. Uscendo dall’erba, il Moro andò vicino all’asfalto e cominciò ad annusare.

“Vieni a sentire che odore!”

Mi avvicinai guardingo.

“Puah, che puzza! È peggio del fumo che lascia il trattore!”

Poi il Moro fece una corsetta fin nel bel mezzo della strada e cominciò a battere il terreno con la zampa: “E senti che duro!”

“No di certo! Non salgo lì sopra neanche se mi paghi!”

In quel preciso istante si sentì in lontananza il sordo rumore di un camion che si avvicinava. Cominciai a gridare forte: “Un’automobile! Vieni via, presto! Vieni via!”

Ma il Moro non mosse neanche un pelo. Si accovacciò, abbassò le orecchie ed attese l’arrivo del camion. Il camion arrivò e sfilò veloce come un razzo, smuovendo l’erba intorno e coprendo con il frastuono del suo motore il mio urlo disperato.

“Visto?” mi disse tutto contento, rizzando di nuovo le orecchie, “Non ti fanno mica niente! Ti passano sopra e vanno via!”

“Ma sei cretino?” ero terrorizzato, “Vuoi farmi invecchiare prima del tempo?”

“Sei solo un cacasotto! Annusa l’aria, piuttosto… Senti l’odore che lasciano…”

“Questa sembra proprio la puzza che lascia il trattore…”, ma poi un altro odore più forte mi fece storcere il naso con una smorfia: “C’è anche un altro tanfo…”

Subito una voce dietro di me mi interruppe, facendomi rizzare il pelo sulla schiena: “Non sarà mica mio quel tanfo, piccino?”

Era la faina, che era riuscita ad avvicinarsi senza essere sentita, coperta dal rumore e dall’odore del camion.

Ero completamente paralizzato. Tremavo come una foglia, tenevo le orecchie basse sulla schiena e stavo acquattato con gli occhi chiusi più stretti che potevo. Sapevo che per me era finita.

La faina era pronta a saltarmi addosso, quando il Moro cominciò a gridare: “Chi ti credi di essere, muso da pipistrello? Prova a prendermi, se sei capace, stupido imbecille!” e si lanciò di gran carriera lungo la strada.

La faina non si lasciò ripetere l’invito e partì all’inseguimento come un proiettile.

In quell’istante, tre, quattro, cinque automobili piombarono sulla strada ad una velocità paurosa. Con un ultimo gesto di disperazione decisi di tentare il tutto per tutto e me la diedi a gambe levate verso la tana. In un attimo arrivai a casa, mi precipitai nel buco e sparii nel buio della galleria.

Il Moro non tornò mai più a casa. Per tutto il pomeriggio le cornacchie e le gazze setacciarono in lungo e in largo la strada, piluccando frattaglie fresche senza troppi sforzi. Evidentemente non sempre le automobili “ti passano sopra e vanno via”. In compenso, non è mai più tornata neanche la faina. Almeno il sacrificio del Moro non è stato inutile.

Ma anche la volpe e lo sparviero, per un bel po’, non avranno caccia agevole, in fondo al prato di zia Teresa. Da quando ho riferito a tutti gli altri quel che accadde quel giorno sulla strada, per qualche generazione non sarà facile trovare un coniglio a passeggio lontano dagli ontani...